Attraversiamo la porta stretta e saliamo su una ripida scala fino al luminoso bianco di uno spazio angusto, ma sorprendentemente aperto all’orizzonte e tralucente dello stupore del sacro. Vogliamo, meno laicamente, usare la parola santo? Certamente si. Perché in questo luogo si contraddice e si smentisce il versetto di Giovanni: E gli uomini preferirono le tenebre piuttosto che la luce. Sono qui nello studio di Giovanni Censi insieme a Maria Pelliccia, sua inimitabile stimatrice. Al di qua della luce giovannea è storia di rovine e di assenza, di tenebre appunto. Il tragico deprivato dell’ottimismo spalanca la larga porta delle illusioni del nulla, della cancellazione irreversibile della speranza, della carenza buia del santo.
Giovanni Censi conosce questi termometri della finitudine, della fragile finitudine, ma in ogni sua opera, in modo talora meno evidente, in altro più solare, si percepisce la presenza illuminante dello splendore della luce, frutto dell’imaginazione che è libertà della mente (W. Stevens). Mi sembra, perciò, opportuno sottolineare che anche nel tempo della povertà i suoi volti e la sua natura vibrano della luce riflessa dell’universo creaturale. Chiamavo le stelle sorelle. E la primavera melodia divina. Questi versi del poeta Holderlin attanagliano quel sentimento del santo che affraterna ogni creatura. Sembrerebbe, la fantasmagoria dei colori di Giovanni Censi, lontana dallo spogliarsi del poverello di Assisi, eppure nei due c’è la stessa significanza della Presenza.
Il Cantico di Francesco e la pittura di Giovanni Censi introducono all’evocazione, alla ricerca, al trovare e cercare ancora un assoluto articolato in immagini simboliche e preziose su cui prorompe l’impeto della bellezza. Eppure come è lontana la vanitas, come è presente in ambedue la goccia del Qohelet, come il pensiero si fa prepotentemente immagine del senza immagine. Ambedue fanno fiorire il deserto mediante quell’esprimersi che nei momenti alti tutto avvolge.
Tempo per nascere (Qohelet), in questa tela il nascere è premessa brulicante delle miriadi forme di vita, di tutta la vita, pur nel limite della finitudine del reale e come nella musica di Satie, soprattutto nei suoi piano works, egli si abbandona alla gioia ed ai teneri piaceri dell’immaginazione ora con umore rapido e istintivo ora con la dolcezza poetica di una affezione delicata. Allora niente è meccanicistico, vi è, piuttosto, un equilibrio squilibrato (M. Luzi) che rafforza l’anelito cosmico verso il santo. Perfino il cielo, luogo simbolicamente deputato a rappresentare il santo, perfino il cielo, dicevo, perde via via compattezza per chiedere senso alla vita tirata fin lassù negli spazi blu che le restituiscono voce e fermento.
La tensione vitale di Giovanni Censi allora si addensa e, nel cercare con la spatola le vibrazioni che si spandono fin fuori la tela, gli permette l’ascesi verso immagini sacre, icone, che spesso traducono il tragico della crocifissione. La gestualità, allora, si fa più rapida con il cuore in gola, perché il tragico sottolinea ossa e costole; si spalanca l’abisso, ma proprio allora, il tempo fuori del tempo, fa fiorire il deserto nell’abbraccio totale, sì spasmodico, con quell’umanità riacciuffata dall’Assoluto. Il cielo allora riverbera quella costante luce, luce che brilla tra le tenebre, luce dell’interiore ed energetica espansione del cosmo.
La porta stretta e la scala stretta sono allora il pertugio, la strozzatura della clessidra dove l’oro della sabbia trapassa. Oltre è il fuoco e il cipiglio istintivo del generoso e passionale giocarsi di Giovanni Censi. La sua ultima fatica è l’opera, ancora in corso, attraversante il Cantico dei Cantici, il Cantico Nuziale. Il sistema di questa silloge pittorica non è mai chiuso e si estende in un continuum, che non è solo paesaggio, ma rielaborazione di esso con sviluppi formali a macchia, a chiazze, a superfici rapide e mutevoli, a particolari di un mondo sempre emergente dall’anima. In esso i margini delle opere schiariscono sempre verso l’alto evitando una modalità spaziale codificata. Il figurativo procedere, per lo meno il riferimento realistico, non viene mai meno, tuttavia trova sorprendentemente un inevitabile e suggestivo allontanarsi dalle sue modalità estetiche, dalla sua fissità e dalla sua saldezza descrittiva. La Bibbia e, nel nostro caso il Cantico, è già pittura in sé, ispirata e ispiratrice, grafia dell’evento del colore. I versetti del Cantico, nell’opera pittorica di Giovanni Censi, si sottraggono alle parole. Egli, infatti, ne visualizza l’interpretazione in sequenze successive chiarendo la complessità del testo con gesti profondi resi visibili dalla sua poetica ora manifesta ora enigmatica. È il procedere simultaneo, in un certo senso mitico e simbolico, della profezia della Parola e del Segno.
La colomba, come la donna amata, allora è simbolo della sposa, che tutto sovrasta il pensiero totalmente assolutizzante dell’amore coniugale. Nell’opera l’Amore è più forte della morte, Giovanni Censi sperimenta ancora l’esperienza dell’assenza, intrigando la lama centrale della tela e anche se il groviglio straripante e frenetico focalizza l’attenzione, tuttavia proprio da questo singulto umano, da questo coacervo di spatolate: linee e colori, emerge un cielo di una lievissima e luminosissima spiritualità creatrice. È il trionfo dell’amore sulla morte e sul silenzio. (G. Ravasi) Il dirupo, che è spaziale ma anche cronologico, nel senso della deprivazione dell’intervento operativo dell’artista, il dirupo, dicevo è nella voragine verde-multicolore della tela Per vedere verdeggiare la tua valle. In essa l’andamento a vortice curvilineo ordisce un abisso che esplode fino a rapire l’anelito a Dio. Il gesto espressionista, rasenta, allora, l’informale per riprendere il respiro e per insinuare la fecondità della gestazione. Il cielo, quello scorcio di cielo, illumina e sta dentro il quadro come luce, come guizzo lampeggiante di luce, che tutto sovrasta il nostro nulla. Le opere più strettamente figurative e più simbolicamente sacramentali: Al ballo e Andremo alle Vigne, ci presentano i personaggi di questa storia – simbolo in una sorta di abbandono dell’anima all’essenzialità formale della Verità del nudo. L’eros diviene allora atto sacramentale liberante tutta l’energia creativa e interiore dell’essenzialità del santo e del sacro.
Nell’opera culminante Andremo alle Vigne il maschio e la femmina non sono, in vero, nudi ma la modalità dell’incontro sessuale è solo velata, per pudore, dai colori delle vesti. L’impulso del rosso dello Sposo sprigiona il librarsi della materia in esiti e destini di autentica e traboccante sanguigna spiritualità. Il bianco della Sposa rappresenta la grandezza umile dell’attesa e della consacrazione della vita fino all’estrema unità della mistica Sposa. L’intimità assoluta dell’amore coniugale permette, allora, ad essa di tendere prepotentemente all’infinito, al misterico rinvio a quel bramoso anelito umano che può riposare, nella più totale apertura d’Amore, solo in Dio.