GIOVANNI
CENSI


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FRANCESCO COZZI
"Avvenire" 15 aprile 2007
DANTE FASCIOLO
Direttore di "Arte e Fede"
GIOVANNI PROSPERI
CARMINE BENINCASA
FRANCESCO COZZI
"Avvenire" 15 aprile 2007
DANTE FASCIOLO
Direttore di "Arte e Fede"
        È dagli anni ‘70 che Giovanni Censi ha intrapreso con forza il cammino di testimoniare, attraverso la pittura, il suo mondo interiore; di palesare i reconditi stati del suo animo; di comunicare il profondo dei pensieri con il linguaggio che gli è più congeniale e che via via ha rivelato oltre la forma, oltre il cromatismo, una cultura di formazione teologica, una memoria di equilibrio esistenziale tra un’etica civile e una morale religiosamente rigorosa; una vitalità capace di esprimere il senso di una libertà pronta a nutrirsi del simbolo e del mistero ed al contempo sensibile nel dare nutrimento ai valori ed alla vita quotidiana.

           In questo senso, dal lontano Kohelet, ecco il blu, il giallo e il rosso battere il ritmo del tempo: nascere, amare, lottare, morire... raggiungere insieme la pace... in sintonia con le tappe che segnano l’itinerario della vita dell’uomo. Grandi tele, che dal Kohelet assorbono la grande lezione sulla vanità, e rendono comprensibili, nella semplicità dei vortici pittorici, e nella luce che si staglia all’orizzonte, l’assunto biblico: “Tutte le parole sono inadeguate / nessuno può descrivere tutto: non si sazia l’occhio di vedere / né l’orecchio si riempie di ciò che sente”.

           Eco lontana di Genesi, che si annuncia con groviglio sovrastato di luce accecante. È “Il primo giorno”: “E fu mattina”... “E fu sera”, parabola della Creazione, resa da Censi con una particolare propensione allo stupore. Orizzonti concavi e convessi - nella prospettiva dei Salmi - invitano a guardare dentro noi stessi, a cercare, a conoscerci: “All’aurora io Ti cerco”...con tenui colori... per esplodere verso l’alto: “Esulti la terra”, oltre la lussureggiante, infiammata natura, oltre i confini di un cielo cobalto.

           La spatola di Censi disegna movimenti liberatori: la forza di un impressionismo che narra con determinazione la “cacciata” di Adamo ed Eva, la “caduta” di Paolo a Damasco, l’“Apocalisse” e i suoi simboli. E contrappone, con impasti di colore irripetibili, le nascoste frenesie che agitano “la città dell’uomo” alla paziente compostezza degli uomini “presso i fiumi”; e alla dolente e perpetua storia dell’Uomo solo tra gli ulivi, che redime con la Croce i peccati degli uomini, le serene atmosfere della “Pasqua” e il concretarsi di “Cieli Nuovi” come traguardo delle passioni ultime e delle speranze possibili.

           Censi racconta coi colori, esprime forme di matura vocazione artistica, imprime sapienza e sofferenza alle sue tele e trasmette vigorosamente, in linea con un temperamento che si dimena tra tormento e speranza, un vissuto umano e profetico entro il quale non è possibile non riconoscersi, non è impossibile confrontarsi, non è impossibile stabilire un incontro.
GIOVANNI PROSPERI
        Attraversiamo la porta stretta e saliamo su una ripida scala fino al luminoso bianco di uno spazio angusto, ma sorprendentemente aperto all’orizzonte e tralucente dello stupore del sacro. Vogliamo, meno laicamente, usare la parola santo? Certamente si. Perché in questo luogo si contraddice e si smentisce il versetto di Giovanni: E gli uomini preferirono le tenebre piuttosto che la luce. Sono qui nello studio di Giovanni Censi insieme a Maria Pelliccia, sua inimitabile stimatrice. Al di qua della luce giovannea è storia di rovine e di assenza, di tenebre appunto. Il tragico deprivato dell’ottimismo spalanca la larga porta delle illusioni del nulla, della cancellazione irreversibile della speranza, della carenza buia del santo.

        Giovanni Censi conosce questi termometri della finitudine, della fragile finitudine, ma in ogni sua opera, in modo talora meno evidente, in altro più solare, si percepisce la presenza illuminante dello splendore della luce, frutto dell’imaginazione che è libertà della mente (W. Stevens). Mi sembra, perciò, opportuno sottolineare che anche nel tempo della povertà i suoi volti e la sua natura vibrano della luce riflessa dell’universo creaturale. Chiamavo le stelle sorelle. E la primavera melodia divina. Questi versi del poeta Holderlin attanagliano quel sentimento del santo che affraterna ogni creatura. Sembrerebbe, la fantasmagoria dei colori di Giovanni Censi, lontana dallo spogliarsi del poverello di Assisi, eppure nei due c’è la stessa significanza della Presenza.

           Il Cantico di Francesco e la pittura di Giovanni Censi introducono all’evocazione, alla ricerca, al trovare e cercare ancora un assoluto articolato in immagini simboliche e preziose su cui prorompe l’impeto della bellezza. Eppure come è lontana la vanitas, come è presente in ambedue la goccia del Qohelet, come il pensiero si fa prepotentemente immagine del senza immagine. Ambedue fanno fiorire il deserto mediante quell’esprimersi che nei momenti alti tutto avvolge.

Tempo per nascere (Qohelet), in questa tela il nascere è premessa brulicante delle miriadi forme di vita, di tutta la vita, pur nel limite della finitudine del reale e come nella musica di Satie, soprattutto nei suoi piano works, egli si abbandona alla gioia ed ai teneri piaceri dell’immaginazione  ora con umore rapido e istintivo ora con la dolcezza poetica di una affezione delicata. Allora niente è meccanicistico, vi è, piuttosto, un equilibrio squilibrato (M. Luzi) che rafforza l’anelito cosmico verso il santo. Perfino il cielo, luogo simbolicamente deputato a rappresentare il santo, perfino il cielo, dicevo, perde via via compattezza per chiedere senso alla vita tirata fin lassù negli spazi blu che le restituiscono voce e fermento.

           La tensione vitale di Giovanni Censi allora si addensa  e, nel  cercare con la spatola le vibrazioni che si spandono fin fuori la tela, gli permette l’ascesi verso immagini sacre, icone, che spesso traducono il tragico della crocifissione. La gestualità, allora, si fa più rapida con il cuore in gola, perché il tragico sottolinea ossa e costole; si spalanca l’abisso, ma proprio allora, il tempo fuori del tempo, fa fiorire il deserto nell’abbraccio totale, sì spasmodico, con quell’umanità riacciuffata dall’Assoluto. Il cielo allora riverbera quella costante luce, luce che brilla tra le tenebre, luce dell’interiore ed energetica espansione del cosmo.

           La porta stretta e la scala stretta   sono allora il pertugio, la strozzatura della clessidra dove l’oro della sabbia trapassa. Oltre è il fuoco e il cipiglio istintivo del generoso e passionale giocarsi di Giovanni Censi. La sua ultima fatica è l’opera, ancora in corso, attraversante il Cantico dei Cantici, il Cantico Nuziale. Il sistema di questa silloge pittorica non è mai chiuso e si estende in un continuum, che non è solo paesaggio, ma rielaborazione di esso con sviluppi formali a macchia, a chiazze, a superfici rapide e mutevoli, a particolari di un mondo sempre emergente dall’anima. In esso i margini delle opere schiariscono sempre verso l’alto evitando una modalità spaziale codificata. Il figurativo procedere, per lo meno il riferimento realistico, non viene mai meno, tuttavia trova sorprendentemente un inevitabile e suggestivo allontanarsi dalle sue modalità estetiche, dalla sua fissità e dalla sua saldezza descrittiva. La Bibbia e, nel nostro caso il Cantico, è già pittura in sé, ispirata e ispiratrice, grafia dell’evento del colore. I versetti del Cantico, nell’opera pittorica di Giovanni Censi, si sottraggono alle parole. Egli, infatti, ne visualizza l’interpretazione in sequenze successive chiarendo la complessità del testo con gesti profondi resi visibili dalla sua poetica ora manifesta ora enigmatica. È il procedere simultaneo, in un certo senso mitico e simbolico, della profezia della Parola e del Segno.

           La colomba, come la donna amata, allora è simbolo della sposa, che tutto sovrasta il pensiero totalmente assolutizzante dell’amore coniugale.  Nell’opera l’Amore è più forte della morte, Giovanni Censi sperimenta ancora l’esperienza dell’assenza, intrigando la lama centrale della tela e anche se il groviglio straripante e frenetico focalizza l’attenzione, tuttavia proprio da questo singulto umano, da questo coacervo di spatolate: linee e colori, emerge un cielo di una lievissima e luminosissima spiritualità creatrice. È il trionfo dell’amore sulla morte e sul silenzio. (G. Ravasi) Il dirupo, che è spaziale ma anche cronologico, nel senso della deprivazione dell’intervento operativo dell’artista, il dirupo, dicevo è nella voragine verde-multicolore della tela Per vedere verdeggiare la tua valle. In essa l’andamento a vortice curvilineo ordisce un abisso che esplode fino a rapire l’anelito a Dio. Il gesto espressionista, rasenta, allora, l’informale per riprendere il respiro e per insinuare la fecondità della gestazione. Il cielo, quello scorcio di cielo, illumina e sta dentro il quadro come luce, come guizzo lampeggiante di luce, che tutto sovrasta il nostro nulla. Le opere più strettamente figurative e più simbolicamente sacramentali: Al ballo e Andremo alle Vigne, ci presentano i personaggi di questa storia – simbolo in una sorta di abbandono dell’anima all’essenzialità formale della Verità del nudo. L’eros diviene allora atto sacramentale liberante tutta l’energia creativa e interiore dell’essenzialità del santo e del sacro.

           Nell’opera culminante Andremo alle Vigne il maschio e la femmina non sono, in vero, nudi ma la modalità dell’incontro sessuale è solo velata, per pudore, dai colori delle vesti. L’impulso del rosso dello Sposo sprigiona il librarsi della materia in esiti e destini di autentica e traboccante sanguigna spiritualità. Il bianco della Sposa rappresenta la grandezza umile dell’attesa e della consacrazione della vita fino all’estrema unità della mistica Sposa. L’intimità assoluta dell’amore coniugale permette, allora, ad essa di tendere prepotentemente all’infinito, al misterico rinvio a quel bramoso anelito umano che può riposare, nella più totale apertura d’Amore, solo in Dio.
Subiaco, 25 agosto 2005
CARMINE BENINCASA
Subiaco, 1984
        Giovanni Censi pittore e grafico autodidatta, è nato a Gerano (Roma) nel 1942 e qui vive ed opera in Via del Palazzo. Laureato in teologia e impegnato in campo pastorale come sacerdote, Censi è comunque nel campo dell’arte dal 1961, avendo frequentato esponenti dell’ultima scuola romana e dell’espressionismo americano (nelle opere ad olio predilige la spatola) e da allora ha esposto in varie mostre e rassegne artistiche; è altresì presente in alcune “botteghe” d’arte; ha disegnato e curato l’arredo di chiese, dove offre quadri di grande respiro.

        “Accompagnando la pittura di Giovanni Censi abbiamo l’impressione che essa sia un arco che si accinge a raggrumare energia e tensione per divenire segno e simbolo di volo. Il colore si tende e si estende sempre un po’ oltre la forma e l’organizzazione materica si complica e si dilata per andare oltre le cose percepite, per divenire movimento e indicazione simbolica del linguaggio del cuore. Nella pittura il cuore vuole raccontare un cammino, una scelta di vita, un percorso di sfida, una testimonianza di impegno: la pittura rivela il movimento dell’esistenza ad andare oltre i segni del mondo e le cose del quotidiano vivere. L’intensità dell’esperienza si sviluppa nel tentativo di volare con la fatica della materia, poiché il colore è pur sempre e comunque materia.

           Queste opere sono come un’urna piena d’acqua che vuole debordare, come un cestino che vuole offrire la pienezza di ciò che contiene; e questa pienezza diventa simbolo di un desiderio di andare oltre le tante stagioni del giorno dell’uomo. Ma per andare oltre, bisogna restare, bisogna inciampare nello sguardo, nel limite, nella forma, nella realtà della finitudine della materia. La materia pittorica è il pretesto per svelare l’ansia dello spirito e ricercare ciò che ci attende.”
Subiaco, 25 agosto 2005
Subiaco, 1984
Critici
Mons. MARCO FRISINA
Roma, 10 marzo 2014
Mons. MARCO FRISINA
Roma, 10 marzo 2014
        Il giorno 20 marzo 2007 presso la Galleria d’Arte “L’Agostiniana” a Piazza del Popolo in Roma è stata inaugurata la mostra personale di Giovanni Censi come commento pittorico ai Libri Sacri del “Qohelet” e del “Cantico dei Cantici”. IL vernissage ha fatto registrare, nonostante il maltempo, la presenza di un pubblico selezionato, motivato e attento.

         Giovanni Censi, pittore di Gerano, ha al suo attivo numerose mostre personali e collettive non solo nel territorio nazionale, ma anche in ambito europeo. La presentazione della mostra L’Agostiniana è stata affidata al prof. Giovanni Prosperi, il quale ha messo subito in risalto la presenza illuminante dello splendore della luce come frutto dell’immaginazione, come libertà della mente (W. Stevens). Giovanni Censi, infatti, cerca con la sua spatola un assoluto articolato in immagini simboliche su cui prorompere l’impeto della bellezza. Eppure come è lontana la vanitas declinante le parole del Qohelet. Quando Giovanni Censi tenta in modo cosmico di illustrare “Tempo per Nascere” tutto brulica delle miriadi forme di vita, di tutta la vita, pur nel limite della finitudine del reale. Allora niente è meccanicistico: Vi è , piuttosto, un equilibrio squilibrato (M. Luzi) che rafforza l’anelito cosmico verso il santo. Perfino il cielo, luogo simbolicamente deputato a rappresentare il santo, perde via via compattezza per chiedere senso alla vita tirata fin lassù negli spazi blu che le restituiscono voce e fermento.

        L’ultima fatica di Giovanni Censi è l’opera attraversante il Cantico dei Cantici, il Cantico Nuziale. La modalità di questa silloge pittorica non è mai stata chiusa, ma si estende dall’universo materiale, da quel paesaggio sviluppato formalmente a macchia e a superfici rapide e mutevoli fino alle simbologie animali ed umane emergenti sempre dall’anima.

        Le opere più strettamente figurative e più strettamente sacramentali: Al ballo, Andremo alle vigne e l’Agape e Non turbate il sonno della sposa, ci presentano i personaggi di questa storia simbolo in una sorta di abbandono dell’anima all’essenzialità formale della Verità del Nudo. L’eros diviene allora atto sacramentale liberante di tutta l’energia creativa della Mistica Sposa: la Chiesa, che più si fa nuda, più si fa desiderabile per il cuore dello Sposo-Dio. “Questi testi biblici indicano che l’eros fa parte del cuore dello stesso Dio: l’Onnipotente attende il “si” delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa” (Benedetto XVI).
        L'arte è il dono che Dio ha dato agli uomini affinché essi possano comunicare tutto ciò che vive nel profondo del loro cuore e che le parole non riescono a esprimere. Tutto il creato possiede la firma misteriosa e insieme luminosa del suo Creatore, le creature con i loro colori e i loro suoni ci parlano di Lui, cantano la sua gloria. L'artista è semplicemente un esploratore che parte in terre lontane per scoprire tanta bellezza per poi tornare, portando ai suoi fratelli le testimonianze di tutto ciò che ha incontrato e conosciuto, di tutta la bellezza che ha visto ed amato. Tutto questo lo fa attraverso l'arte, attraverso la pittura, la musica, la poesia, la danza, attraverso quel mezzo di comunicazione che gli è più congeniale e con cui riesce meglio ad esprimere la gloria di Dio.
        Nell'arte pittorica l'uomo, usando i colori e le forme, dona vita e figura a ciò che nel suo cuore ha conosciuto, comunicando a ciascuno di noi la sua contemplazione del creato e soprattutto ciò che ha saputo cogliere della bellezza ineffabile del Creatore. L'uomo vive nel profondo della sua anima una nostalgia profonda dell'Assoluto di Dio e della sua divina bellezza, le creature ne sono un riflesso più o meno splendente che aumenta in noi il desiderio di incontrare l'Autore della loro perfezione e bellezza. L'artista cristiano conosce la via che conduce al Signore della bellezza e la sa percorrere risalendo gioiosamente dalla creatura al Creatore e godendo dell'una e dell'Altro. Il suo compito straordinario è quello di aiutare i fratelli a compiere lo stesso viaggio, accompagnandoli verso la meta e comunicando loro la nostalgia di Dio che lo ha spinto a produrre la sua opera. L'artista è chiamato a condividere un cammino in cui tutta la capacità artistica è a servizio del volto di Dio che si nasconde nelle creature e nel cuore di ogni uomo.
        Essere sacerdote e artista significa semplicemente avere un mezzo in più per comunicare la propria fede e il proprio amore verso Dio, per evangelizzare in modo diretto, colpendo direttamente il cuore e la fantasia dei fratelli per poi far riflettere e conoscere il mistero della redenzione. I quadri ispirati ai salmi del confratello don Giovanni Censi ci mostrano come la visione di fede dell'anima può essere comunicata attraverso la luce, i colori, le forme. I salmi sono le preghiere perfette che Dio ci ha donato attraverso i poeti biblici, con le loro esperienze spirituali, i loro dolori, le loro gioie. I quadri di Censi ne vogliono riprodurre l'emozione, lo stupore, la gioia e il dolore, attraverso un'espressione pittorica luminosa, con la stessa semplicità degli occhi di un bambino che si affaccia verso la creazione e abbagliato dalla sua bellezza la canta con gioia, quasi giocando.